Cosa ci faceva una matrona di Pompei nel ludus gladiatorio? Il ritrovamento di uno scheletro salvato dalle ceneri incandescenti dell’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. mostra che si tratta di una signora di buona famiglia che stava consumando un estremo atto d’amore, proprio nel momento della sua morte, con un gladiatore. Qualcosa di simile a quello che si concedeva la moglie dell’imperatore Marco Aurelio, Faustina che quando il marito era impegnato in affari di Stato lontano da Roma, se ne andava a Gaeta a frequentare marinai e gladiatori nella locale palestra. Alcune dicerie dicono che l’augusta concepì Commodo proprio durante questi viaggi di piacere.
Forse sono solo dicerie, ma è certo che i gladiatori, anche quelli che lottavano con gli animali durante le venationes, godevano di molta ammirazione da parte delle signore che frequentavano l’anfiteatro. Ci sono molte testimonianze nelle opere letterarie dell’epoca, come Marziale che dedica un intero epigramma ad un gladiatore di nome Ermes, osannato come cura laborque ludiarum (tormento e spasimo delle spettatrici o ludie, come venivano chiamate) o Giovenale che racconta un episodio che fece scandalo, la moglie di un senatore, Eppia, si invaghì di un gladiatore, Sergio e lo seguì fino in Egitto abbandonando la famiglia.
Altri eroi dell’arena, forse amati da uomini e donne più dei gladiatori, erano gli aurighi del circo che guidavano le bighe in gare avvincenti ed eccitanti. Nelle gare di aurighe tutto era consentito per causare il “naufragio”, detto così il ribaltamento della biga in gergo circense e la caduta rovinosa del suo conduttore. Quella del circo era una vera e propria malattia nell’antica Roma, addirittura perfino l’imperatore aveva la sua scuderia o fazione, scelta fra le quattro denominate Albata (Bianca), Russata (Rossa), Prasina (Verde) e Veneta (Azzurra). Ognuna di esse era oggetto di un tifo sfrenato che degenerava sovente in risse e scontri fisici con tanto di morti e feriti.
Gli aurighi erano perfino idolatrati e per il lavoro che facevano potevano avere una carriera anche molto lunga. Un certo Diocle, un auriga lusitano, morto a quarantadue anni, nel 146 d.C. dopo una carriera di ben ventiquattro anni, fu uno dei pochi ad aver avuto l’appellativo di miliarii, avendo conseguito oltre mille vittorie, per l’esattezza 1462, 861 volte arrivato secondo e 576 terzo, come dice una epigrafe sulla sua tomba. L’epigrafe indica che in carriera questo auriga ottenne ben 35 milioni di sesterzi, circa 14 miliardi di lire degli anni sessanta. Questi erano soltanto i guadagni ufficiali, mentre poi avevano anche quelli provenienti dai fautores (sostenitori fanatici che scommettevano su loro).
Oltre ai conducenti, a volte, venivano idolatrati perfino i cavalli, come ci dice Svetonio riguardo a Caligola e la sua passione per il cavallo Incitatus che faceva parte dei funales, ossia i cavalli di sinistra che guidavano gli altri nel doppiaggio delle metae, frenando ogni tanto per far girare nel modo giusto gli altri. Questi cavalli non erano attaccati al timone del carro, ma direttamente con una fune agli altri, da qui il nome. Addirittura si dice che Caligola imponeva il silenzio al vicinato per non disturbare Incitatus prima di una gara, gli aveva fatto rivestire la stalla di marmo e perfino una mangiatoia d’avorio, gli aveva inoltre regalato una gualdrappa di porpora tempestata di pietre preziose e si diceva che voleva perfino nominarlo console.
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