La Gastronomia nel Pellegrinaggio in Terra Santa

Partire per la Terra Santa era un’impresa piena di imprevisti e di sorprese gastronomiche che si incontravano lungo il cammino e talvolta potevano portare a piaceri o profondo disgusto. In questo articolo parleremo delle abitudini alimentari dei pellegrini che si trovavano a dover cambiare nel corso di qualche giorno in mare quanto a terra. Come oggi, anche nel Medioevo il cibo era molto importante e tutte queste informazioni si possono ancora ritrovare tra i diari dei viaggiatori dell’epoca.
Una larga parte dei pellegrini tardo-medievali partiva da Venezia acquistando prima dell’imbarco generi di ogni sorta: “caseo lombardo, salsizi, lingue et salami d’ogni sorte, biscotti bianchi, qualche pani de zucharo et de più sorte confectione, ma non grande quantitate, perché se guastano presto; et sopra tuto del violeppo ( sciroppo dolce ) assai perché l’è quelo che tene vivo l’homo in queli extremi caldi. Et così del zenzebre siropato ( zenzero candìto ) per aconzare el stomaco che fosse guasto per tropi vomiti, ma usarlo raro perché è tropo caldo. Similiter de la cotignata senza specie ( cotognata senza spezie ) et aromatici arosati et gariofolati, et così qualche boni lactuarij“. Questo nel 1840 il milanese Santo Brasca scrisse prima di partire per la Terra Santa.

Oratorio del Buonomini di San Martino a Firenze
Alloggiare i pellegrini

Oltre a comprare il necessario per il viaggio in nave, alcuni arrivavano a Venezia portando il tutto da casa. I pellegrinaggi divennero talmente frequenti che a Venezia dalla primavera all’autunno si organizzavano dei veri e propri servizi di linea, le cosiddette navi dei pellegrini. Chi poteva permetterselo trattava direttamente con i comandanti delle navi per avere condizioni di viaggio migliori, ma delle volte non venivano rispettate. La navigazione nel Mediterraneo era non senza pericoli, soprattutto per le tempeste. Il pellegrino nei trentuno giorni di media di viaggio, da Venezia fino al porto di Giaffa, per quelli che si recavano direttamente in Terra Santa, o ad Alessandria, per coloro che decidevano di passare per l’Egitto, scriveva il proprio diario, scritto in volgare, che sarebbe servito per informare gli altri dei pericoli e di come fare il viaggio nel miglior modo possibile. Coloro che sbarcavano ad Alessandria per passare dal monastero di Santa Caterina sul Sinai, la traversata del deserto era molto disagiata ed anche pericolosa. La pulizia era scarsa e le abitudini alimentari degli Arabi non certo molto gradite dai pellegrini. I commenti più comuni erano per quello che riguarda la carne troppo cotta e disossata, inoltre non piaceva il pane “non levato” ( non lievitato ) e per alcuni pochissimo cotto, perché in quelle terre avevano poca legna ed utilizzavano foglie di datteri e sterco di cammello secco per fare il fuoco. A Damasco ci sono alcuni pellegrini che assaggiarono delle ottime conserve di zenzero, zucchero e miele. Per quello che riguarda le bevande non viene gradito il “retzina” greco: “Empiono tutte le loro botti dentro di ragia a modo d’intonico e, se così non facessino, per la grassezza del vino diventerebbe verminoso; la qual cosa non so se si fusse peggio tra l’uno all’occhio o l’altro al gusto“.
Per affrontare la traversata del deserto si acquistava cibo e bevande al Cairo. Il menù tipico nel deserto era composto dal biscotto ( come sulle navi, si trattava di galletta azzima ), frutta secca ( uva, prugne, mandorle ), del formaggio, dello zucchero, del pesce salato e forse anche polli e fave. Le bevande decisamente lasciavano a desiderare, si beveva acqua dagli otri, che veniva mescolata a succo di limone o aceto per darle del sapore e per depurarla, dato che l’igiene era molto scarsa in quei luoghi. Lungo la via ci si rifocillava nelle oasi, a sentire alcuni pellegrini che furono accolti dai Mamelucchi, il sapore del cibo era molto gradito: “Fu cotto loro uova come frictata in certi testi di terra et ghallavono nell’olio et certe cofaccie cocte nella brace, così calde, che in tutto questo viaggio non mangiai di miglior voglia, et dell’uve dell’acqua che ci parve andare a noze”.
Affrontare quel viaggio non voleva soltanto dire camminare, ma affrontare altre culture talmente diverse che anche il mangiare era problematico.

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